Quando arrivò la minaccia, Gelsina si trovava a casa a fare le faccende domestiche.
Fu proprio lei ad aprire il postino.
A firmare.
A leggere la lettera.

“Signorina Gelsina,
questa mattina a mezzogiorno lei verrà depredata della sua ombra. Non opponga resistenza, potremmo strappargliela con la violenza. Si faccia trovare sul balcone della sua abitazione col sole alto dritto sul capo. L’operazione è indolore, per cui non è necessario preoccuparsi. Non ci chieda il motivo… è top secret!
Però i patti sono chiari, lei è stata scelta su un miliardo di persone, si senta lusingata per questo. Le auguriamo una buona giornata.
Cordialmente,
I Cercatori di Ombre perdute”.

Ma cosa significava quella lettera? Gelsina continuava a rigirarsela fra le mani. Era impossibile che qualcuno fosse alla ricerca della sua ombra. Le ombre, si ripeteva, erano qualcosa di personale. Insomma un po’ come l’anima. Ci vengono date dalla nascita.
Cercò quindi di non pensarci più. E così si diede a pulire l’intero frigorifero incrostato da macchie di sugo e uova marce. Tolse tutta la polvere dalla libreria di famiglia. Prese a sbattere i materassi col frustino (quasi come fossero muli testardi) e uscì fuori nel suo giardino, per controllare le piante.

Che bella giornata di sole!
Il cielo era terso e le nuvole autunnali erano solo un ricordo lontano.
Gelsina stava prendendo una bella limonata fresca nel suo gazebo.
Poi però si alzò per cercare sul tavolo, fra le sue tante scartoffie, quella lettera.
Sarà uno scherzo. Ripeteva.
Ma quando l’orologio suonò la mezza, lei ebbe un soprassalto.
Era uno scherzo, non doveva avere paura. Ma se non lo era?
In casa non c’era nessuno. Era sola sotto il suo gazebo. Nel suo balcone. Con quella lettera fra le mani.
“Mezzogiorno”, rintoccò il cuculo del suo orologio.

Paffete! Una anatra cadde sul suo tavolo.
Gelsina era incredula.
“Chi diavolo sei?”
“Prego non mi offenda. Anche se prelevo le ombre non ho niente a che fare con quelli lì. Siamo ben diversi”.
Gelsina presa dallo spavento cercò di fuggire ma l’anatra si frappose fra lei e la fuga e Gelsina cadde su una sedia.
“Credevo che fosse uno scherzo” ripeteva la donna.
“Lo so, capita. Non ci crede mai nessuno. Ogni volta che veniamo. È sempre la stessa storia”.
“Ma cosa volete da me?” .
L’anatra guardò compassionevole quelle giovani mani tremanti. Poi rispose.
“La sua ombra. Credevo di essere stata chiara nelle lettera. A mezzogiorno verremo a prendere la sua ombra”.

Gelsina piangeva.
“Non faccia così. Lei è una donna fortunata. Ma si rende conto di che fastidio le togliamo da dosso? L’ombra è un essere fastidioso. Viene ovunque. Non te ne puoi scrollare. Mangia con te. Beve con te. Fa i bisogni con te. Molto spesso è anche più bella di te e questo, mi creda, crea notevolissimi problemi psicologici, soprattutto tra le giovani”.
Gelsina non l’ascoltava affatto.
Aveva paura.
“Chi siete?”
L’anatra subito rispose.
“Siamo un gruppo di volontari ricercatori che prelevano le ombre a domicilio dopo regolare estrazione del lotto. Il suo Governo, se lei non lo sapesse, ha un debito secolare nei confronti della nostra comunità. E per ripagarci estrae a sorte le vostre ombre. Ci creda, ci siamo rifiutati categoricamente di avere la vostra anima. Noi non ci abbassiamo a tali nefandezze. Però qualche cosa la vogliamo. A voi l’ombra non vi serve. Noi invece la usiamo al posto degli schiavi. Non inquina, non mangia, non beve e non dorme. Certo di notte non la vedi facilmente. Ma è un problema a cui i nostro team di ricercatori sta lavorando”.

Il Governo di Gelsina si sdebitava con le ombre? Era molto strano.
“Io non te la voglio dare!” disse categoricamente e con un po’ di coraggio.
“Non può farlo. È qualcosa che esula dalla sua volontà. Non vede che l’ombra si è già staccata?”
In effetti l’ombra di Gelsina aveva preso a camminare da sola. Felice, ballava e piroettava sui muri.
A Gelsina sembrò che si fosse messa anche a ridere.

“Ma perché proprio io?” chiese, questa volta, piangendo.
“È sempre la stessa storia” l’anatra sembrava stufa. “Il vostro Governo lo decide, non di certo noi. Io poi sono una volontaria. Non vengo nemmeno pagata. Guarda…” e le mostrò un portafoglio vuoto.

Gelsina era pronta a dare battaglia. Non avrebbe permesso a nessuno di prendersi la sua ombra. Si lanciò sul muro, afferrò la gamba della sua ombra, e corse verso la casa.
L’anatra la rincorse. Col becco afferrò la testa dell’ombra. E chi tirava a destra chi a sinistra l’ombra venne decapitata.
“Hai visto che hai combinato?” disse Gelsina all’anatra.
“Che hai combinato, tu!” rispose l’anatra a Gelsina.

Nacque così un battibecco che durò per ore.
L’anatra non faceva altro che vantare i propri diritti e Gelsina ribatteva con i suoi.
E questo durò per molto moltissimo tempo.
E nella confusione della lite la povera ombra decapitata piangeva il suo destino di esule e reietta più di prima. Figlia ingombrante di un padre inesistente.