Leggendo leggendo sono inciampata in una di quelle frasi che ti stimolano l’immaginazione, di quelle che ti portano in mondi e storie nuove pur provenendo da altre mani. Ma quando quelle mani sono di Anton Čechov allora l’input si trasforma in musa ispiratrice.
“… e all’improvviso tutto gli fu chiaro”: le sue parole, le sue mani, il suo corpo lacero dalla fatica di vivere.
C’era qualcosa, in quello sguardo, che gli aveva bloccato la scesa agli inferi.
Non voleva più morire.
Farla finita.
Era già morto.
Io lo guardavo. Da lontano, s’intende.
Il vestito parlava di miseria. La miseria parlava di lui.
Ho rivissuto nella mia immaginazione i suoi ultimi istanti: la pesantezza di un corpo stanco – buttato lì sulla panchina – un sorso alla sua bottiglia – scivolata lì sull’asfalto – e i suoi occhi a guardare – lì per l’ultima volta – il vuoto di una vita rifiutata.
Io me lo ricordo quell’uomo sulla panchina.
Me lo ricordo bene.
Da bambina mi aiutò a prendere il pallone sull’albero.
Credo che non bevesse allora. – Chissà quando avrà iniziato. – Rideva.
L’ho rivisto da adulta. Piangeva.
Un giorno ci siamo incrociati: io coi miei libri, lui con la sua bottiglia.
Non l’ho salutato. Non l’ho guardato. Non ho avuto coraggio.
Ho visto semplicemente le sue scarpe. E i suoi buchi. E la sua camicia sporca. E avrei potuto notare anche la sua ultima cellula. Ma gli occhi nò. Non li ho guardati, i suoi occhi.
Perché le cose semplici ci sembrano complicate?
“Salve. Si ricorda di me?”.
Avrei potuto dirlo, ma non lo feci.
– Non l’ho fatto. –
… e all’improvviso tutto mi fu chiaro.
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