Figlia dell’ansia, lo ammetto, spesso le evito, mi innervosiscono. Sono cresciuta convinta di odiarle. Ma non sono le descrizioni il problema, è la mia voracità di terminare un libro. Di andare direttamente alla fine. Quest’ansia mi è compagna di vita e spesso dimentico che esiste perché faccio le cose meccanicamente come fossi un contabile delle parole, fino a quando non arriva nella storia una descrizione che mi obbliga a prendere aria, mi frena e giù a correre così velocemente sul testo da non ricordarne il contenuto. Caspita! Mi son detta. E ora?
In linea con gli standard del mio tempo che impongono velocità, perfezionismo, battuta sagace, titolo d’effetto e virgolettato preciso, dimentico che sono un essere umano nato, piano piano, dopo nove mesi. Ma, il ma mi è doveroso, dal momento che ho messo piede nella scuola, è sparita la lentezza. Al riguardo consiglio il libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta di Zavalloni per Emi editore (regalate questo libro a fine anno, i docenti si sa leggono poco e vanno di fretta, magari cambia qualcosa in meglio). La scuola mi ha imposto la fretta, i ritmi assurdi, il successo, la gara e il pensiero del tempo che passa e tu devi fare cose cose cose su cose fino a quando non diventi vecchio.
Dicevo, ho corso a più non posso sui libri di storia, di letteratura, di matematica; su ogni testo scolastico; ero un cavallo indomito; solo le descrizioni mi bloccavano, e ho cominciato ad apprendere l’arte del saltellare. Saltavo da un testo ad un altro pur di non leggere le descrizioni. La mia non era una danza felice piuttosto un cattivo esempio di come ci si approccia allo studio. Ma dovevo andare veloce, il programma era veloce, gli insegnanti erano veloci e le mie maestre amanti della velocità: Muovetevi, forza, muovetevi, pigroni, battete la fiacca! Ero per caso stata messa in una caserma? All’epoca credevo di sì.
Le descrizioni letterarie non vanno analizzate; semplicemente, vanno vissute; e il successo di un testo descrittivo, che per me corrisponde al piacere di leggere, è nella capacità dell’autore di cogliere la vita. Di essere nel presente con la mente e col corpo mentre descrive, e tu con lui. Una descrizione sapete cosa fa? Ti obbliga a rallentare. A perderti fra quelle parole fino a quando non ritorna un discorso, una voce a due o più. Un colloquio, insomma.
Non avevo capito il motivo di questa mia antipatia descrittiva fino a quando non ho letto il libro Cristo s’è fermato ad Eboli di C. Levi. O meglio, fino a quando, per puro caso, non ho letto ad alta voce una descrizione micidiale: pura, autentica, seducente descrizione. Mi sono detta: ma dove sono stata fino ad ora? Cosa mi sono persa per colpa della mia ansia da prestazione? Il presente. Mi sono persa il presente, le sensazioni del momento, il bello di lasciarsi condurre lungo un percorso fatto di memoria, immagini, natura, emozioni; leggere, in sostanza.
Carlo Levi è un genio della narrazione e con le sue descrizioni ci riporta con lui al suo esilio, a quell’Italia morente e contadina degli anni bui della nostra storia. Dove bastava pensarla diversamente per essere imprigionati. Dove non c’erano supermercati e farmacie ad ogni angolo. Un’Italia che faceva la fame, viveva nella miseria, ma era estremamente, maledettamente bella. E dove la vediamo questa bellezza? Dalle descrizioni.
Uno scrittore che va di fretta non può descrivere quei luoghi con la stessa veridicità di chi si siede e ammira; si meraviglia, ascolta e annota. Non si dovrebbe mai scrivere sotto pressione lo so, oggi è praticamente impossibile, per questo possono salvarci le descrizioni. Ci riportano al bello di avere gli occhi per guardare, le mani per toccare, le orecchie per ascoltare, il naso per sentire gli odori e il tempo per emozionarci.
Da oggi in poi, controcorrente con una letteratura moderna che ci vuole tutti colloquiali e stereotipati mi dedicherò alle descrizioni così come ci si dedica alla meditazione. Fatelo anche voi.
Vi lascio la descrizione incriminata:
Risalii e ridiscesi, da solo, per le stradette conosciute, finché giunsi alla chiesa, nel vento, in cima al paese, per ridare uno sguardo a tutto l’orizzonte, che spazia immenso oltre i confini di Lucania. Di qua, ai miei piedi, le case del paese, con i loro tetti giallognoli, e poi la discesa ondulata e grigiastra del monte, fino al Basento, e, in faccia, le montagne di Accettura, da quelle piú a valle che nascondono Ferrandina, alle Dolomiti di Pietra Pertosa, dietro cui si perde il greto del fiume. Da tutti gli altri lati, il grande mare di terra informe, di là del Bilioso, delle grotte dei briganti e dei monachicchi, e di Irsina, irta su un colle ispido. Paesi lontanissimi appaiono da ogni parte, come vele sperdute su questo mare, fin laggiú dove si intravede Salandra, e Banzi, dove si stenta a immaginare, in quella arsura, esistesse davvero un tempo la fresca fontana piú chiara del vetro, degna del vino e del capretto; altri, piú vicini, paiono navigare avvicinandosi al porto, fino a Grottole, là di faccia, dietro la cappella di sant’Antonio, e ai suoi due alberi sperduti nel deserto. Questa sconfinata distesa monotona e ondulata, la si coltiva, da qualche anno, a grano: un povero grano che non ripaga la semente, le spese e la fatica. Quando l’avevo vista per la prima volta, l’estate, era il tempo della raccolta. Tutta la terra, d’ogni parte intorno, era gialla sotto il sole: e un canto di lontane trebbiatrici solcava solo il silenzio. Ora, tutto era grigio, non un colore turbava quella monotonia solitaria.
Buona descrizione a tutti,
Anna
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