Pubblico un pezzo su Janis Joplin. Per ricordare un’artista che ha vissuto una vita troppo breve per essere ricordata. Ma abbastanza burrascosa per essere raccontata.

Graffia Janis, Graffia ancora! Fallo da quell’oscurità che ti sei portata nella tomba e che solo la musica schiarisce. Fallo per te. Fallo per chi ha amato le tue forti note. Fallo con l’anima rock e la gola roca. È rabbia. La rabbia di un giovane in cerca di amore, quella che esprimi. Di un giovane nato nell’America degli anni ’60, in pieno Vietnam. Guerra che ti ha fatto gridare la sua inutilità, nell’unico concerto degno di essere ricordato. Hai duettato con il leggendario Jimmy Handrix. Lo hai fatto con tutta te stessa, perché come persona d’amore non ti concedi mai a metà. O tutto o nulla. Un nulla che nella vita ti ha accompagnato fino alla morte per overdose da eroina in una squallida camera d’albergo.

Janis Joplin, una delle cantanti più brave della storia della musica rock internazionale, si spense, a soli 27 anni, il 4 ottobre del 1970. Il corpo venne ritrovato in una stanza dell’Landmark Motor Hotel di Hollywood conficcato fra il letto e il comodino. La notizia lasciò amareggiati i suoi fan, ma non colpì più di tanto chi la conosceva da vicino. Donna di eccessi e ribellioni Janis Joplin incarna a pennello il mito della star maledetta. Come se per essere ricordati bisognasse passare per l’inferno. Cresciuta nelle comunità hippy Pearl, così la chiamavano gli amici, ha abbracciato la filosofia dell’amore e della pace ma anche quella distruttiva della droga e dell’alcool. Lasciò casa a 16 anni, senza mai completare gli studi. E la musica fu la sua valvola di sfogo contro chi non la vedeva affatto. La verità è che Janis non andava vista, ma sentita. E ancora oggi a sentire le sue esibizioni si rimane stupiti, come quando si presentò con la sua criniera di capelli cespugliosi al festival di Monterey nel ’67. Sembrava un leone mentre si esibiva col suo gruppo i Big Brother and the Holding Company davanti migliaia di persone.

Vita difficile, certo. Potevi gridare allora. Bastava intonare “Cry baby” come sai fare tu. Un “Piece of my heart” e l’anima avrebbe rivisto il suo destino. Sarebbero venuti a salvarti. Chi può resistere alla tua richiesta d’amore. Ma quella volta non hai urlato o se lo hai fatto la tua preghiera era stata troppo pacata. Perché la vita è così: a volte per essere ascoltati bisogna urlare.

Con i Kozmic Blues Band iniziò la sua carriera da solista. Ma il suo stile di vita era sempre lo stesso. Eccessi su eccessi. Optò per un nuovo gruppo. Un nuovo album. Nacque “Pearl”. L’album conteneva pezzi come Move Over, Buried Alive In The Blues, Mercedes Benz ed era pronto per la diffusione quando la notizia della precoce morte della star ne postdatò l’uscita. Fu un successo incredibile. Ancora oggi rimane un album ricercatissimo. Peccato che Janis non abbia mai assaporato l’ebbrezza di sentirsi così amata.

Allora graffia, Janis. Graffia ancora dalla tua tomba. Fallo coi tuoi pezzi. Le tue canzoni. La tua Summertime. Fallo e basta. Fallo con la grinta di una donna che vuole riprendersi la sua vita. Fallo con la speranza che chi ti ascolti capisca che la via per il Paradiso non passa dall’inferno. E le note arrivano “No, no, no no, no no, no… Don’t you cry cry”. Addio Janis.