Racconto surreale di come l’anima salva il corpo, una volta che il corpo riconosca l’anima.
In barba al titolo, tutto finisce bene, almeno dalle nostre parti.
Lucia era una bambina di nove anni col dono dell’immaginazione. In un pomeriggio assolato, passato a vagabondare per le campagne romane – i genitori dormivano nella casa di villeggiatura – prese il volo. Lucia si trovò proiettata nel cielo a guardare l’altra Lucia dormiente sul prato. In realtà le appariva come morta, una persona senza anima né vita.
Se era quella la libertà, Lucia era libera.
Tutto era più luminoso da lassù: i prati, le case anche i pensieri erano chiari. A Lucia non importava più di avere un fratello prepotente o un padre assente. Tutto non aveva più importanza. Meglio guardare il mondo. Volare leggera. Rincorrere gli uccelli. E ridere. Di una risata corposa.
“I fiori sono belli, ma le nuvole sono più soffici” pensava.
Perché non arrivare fino al sole, allora?
E Lucia prese a volare verso la meta immaginata. E volava. E c’era fresco lì. Si stava bene fra le stelle. Le avevano insegnato che il sole era bollente, che non era possibile avvicinarsi, che era facile scottarsi. Falso. Lucia guardava le sue mani, i capelli, il corpo leggero. E tutto era cristallino. Un’aria piacevole si respirava nel sole. E bevve raggi di luce.
Poi ripensò al suo corpo.
A quella Lucia rimasta sul prato senza anima né vita. Ebbe pietà per quella bambina di nove anni. In un vortice di bagliori aprì gli occhi. Il prato appariva più bello dopo quel volo. I suoi genitori la guardavano da vicino. Se era quella la felicità, Lucia era felice.
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