È quando mi sento particolarmente giù che la scrittura mi dà una mano. Al riguardo e per superare piccoli momenti out uso un esercizio di scrittura che trovo molto interessante. Prendo una cosa che mi piace veramente e incomincio a scriverci su. Ma parlo di piccole cose, come un piatto di pasta o la pizza (buona la pizza!).
Oppure mi piace uscire ed andare in centro e far tappa nella mia libreria preferita. Prendere un libro a volo e leggerlo lì in quelle magnifiche poltrone bianche nascoste da scaffali infiniti di libri. Lo trovo piacevole, al tatto alla mente e al cuore. Così l’esercizio di oggi è provare a scrivere su ‘qualcosa che ci piace moltissimo’.
Se siete tristi, dopo dopo qualche minuto di scrittura dovreste sentirvi subito meglio. Può anche essere un attimo o pochi minuti ma bastano alla nostra mente per allontanarla dalle cose brutte che l’appiattiscono. E io penso che la creatività sia piena di colori e possa farci rinascere senza l’uso di pillole o medicinali vari.
Chi mi conosce sa che la cosa che mi fa star bene è andare in libreria. Magari nemmeno compro quel libro che sto leggendo. Ma poterlo sfogliare, leggere, annusare l’odore della sua pelle mi manda in estasi. E mi ritrovo a gioire senza nemmeno tanta fatica. Non dico che questo esercizio possa risolvere i problemi di persone con una malinconia più profonda, ma è un piccolo espediente che funziona e che può farci rivivere le sensazioni che proviamo ogni volta che siamo felici.
Esercizio di scrittura creativa
Provate a ricordare una cosa che vi piace fare e che vi fa star vede. Potrebbe essere un piatto di portata o una passeggiata in montagna o semplicemente fare una chiacchiera con un’amica. Come ho detto prima quello che a me piace di più, e ogni volta mi porta gioia, è andare in libreria, sedermi e aprire qualsiasi libro che trovo davanti. Nessuno che mi dice nulla, nessuno che mi chiede. Magari sì, qualche volta intoni un discorso con il signor libraio e lui sa sempre un sacco di cose che tu non sai. Ma per il resto passi inosservata. Almeno credo…
C’era qualcosa in quel palazzo bianco coi mattoni arancioni che mi attraeva. Non era per il fatto che si trovasse in centro sulla strada più IN della città. E nemmeno per la mole di uffici distaccati di importanti testate giornalistiche. Era per quella libreria su tre livelli, una carrellata di finestre e tanti scaffali ricolmi di verbosità.
Da poco la libreria aveva aperto anche la sezione musica e video giochi, nel pian terreno, e proprio lì esisteva il mio angolo di lettura. Era una poltroncina bianca più nascosta rispetto alle altre. Si trovava vicino ai libri di tarocchi e amuleti vari. Non ci veniva mai nessuno da quelle parti, e i dipendenti erano così impegnati a riporre i nuovi dvd in offerta che non si accorgevano di me. Così leggevo, comodamente, tutti i libri che volevo. A volte capitava che sbirciassi da dietro le mie pagine bianche e guardassi la passerella in libreria. C’era gente di ogni tipo. Dallo snob (quello lo riconosci subito) al capitato per caso (devo fare un regalo alla mia fidanzata, che libro le compro?). Forse dovrebbe comprartelo lei un buon libro, e penso subdolamente ad un abecederaio. E mi scappa un sorriso.
Le persone anziane sono quelle che più mi incuriosiscono in libreria. Hanno sempre voglia di imparare. Vogliono conoscere, capire. Proprio come quell’ometto, lo chiamai così perché per me aveva l’animo di un fanciullo, che nonostante i suoi 85 e passa anni ogni settimana si regalava un libro. “I libri dicono. Dicono tante cose”. Era il suo motto. E parlando parlando mi raccontò che lui comprava i libri seguendo una tecnica che gli aveva insegnato suo nonno. Li addocchiava da lontano, se lo ispiravano si avvicinava. Si faceva una domanda. “Che sia chiara e sincera”. Poi li apriva a casaccio e se quello che leggeva era la risposta alla sua richiesta, li comprava. “Prova!” mi disse fiducioso.
Guardai dritto in fondo al corridoio. Vidi un libricino bianco caduto per terra senza che nessuno se ne accorgesse. Corsi, come se volessi aiutarlo a sollevarsi. Un malato che aveva bisogno di me. Mi sentii tanto una crocerossina sul fronte. Poi dissolsi l’immagine e tornai a guardare il malcapitato libro. Il vecchio mi aveva detto che dovevo fare una domanda e aprirlo a caso. Solo allora avrei scoperto la risposta. E solo allora avrei capito se quel libro era destinato davvero a me.
Feci scorrere la pila di fogli velocemente. Prima da un lato e poi dall’altro. Rigirai il libro, dissi mentalmente la mia domanda e con parole magiche e solo quando mi sentii pronta stappai la bottiglia, e lessi:
Sei dunque ciò che volevo?
Vattene – il mio dente è cresciuto -.
Offriti in pasto a un più piccolo palato
che non così lungo la fame ha stremato-.
Sappi che mentre aspettavo,
il mistero del cibo
tanto è cresciuto che l’ho infine ripudiato
e ho cenato senza di lui, come Dio.Ero incappata in una raccolta magnifica di versi della Emily Dickinson. Versi che parlavo di rabbia. Era riuscita a trasformare la rabbia in poesia. E tutto sembrava leggero. Perfino l’essere arrabbiati. Proprio la risposta alla mia domanda rabbiosa. Sii leggera, mi dicevano quei versi. E sorrisi. Il vecchio aveva avuto proprio ragione.
Buona scrittura a tutti.
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