Non ho mai conosciuto Oriana Fallaci, l’ho soltanto letta, ascoltato della ruvidezza del suo carattere e ho imparato ad amarla nelle sue metamorfosi di donna. Mi piace il suo stile diretto. Quella punteggiatura ricca di due punti: nei due punti. Come a perdersi in quelle profondità viscerali di un flusso di coscenza perpetuo. Solo che era lei a stabilirne il tempo. E quel punto fnale metteva fine ad ogni cosa.
Nell’ascoltare le diverse interviste rilasciate da amici colleghi e parenti, l’immagine che vedo è di un’Oriana sola. La parola a volte uccide proprio la penna che l’ha celebrata. E spesso mi chiedo se ne vale davvero la pena immolarsi per questa santa scrittura. Che ti deturpa, non ti comprende, ti chiama e urla il tuo nome ad ogni ora del giorno, come adesso ad esempio, mentre dovrei fare altro e il mio pensiero va su Oriana Fallaci e i suoi scritti. Le sue interviste. Quegli incipit che mi hanno fatto tremare per la talentuosità con cui sopravvivono agli anni.
L’ho presa a modello in ogni modo, ne ho copiato gli stili, i corsivi, l’arcignosità delle parole. Ma se Oriana si nasce L’Oriana si diventa. Si diventa sui campi di battaglia, fra corpi e cadaveri di uomini dalla lingua straniera, lungo tratti disseminati di bombe. Nei salotti bene di una Hollywood sporca. Oriana è andata anche sulla Luna con uno dei suoi più ceebri capolavori. Ha affannato per conquistarsi gli astronauti, capire le loro vite, sviscerare quelle paure così candidamente nascoste dai giornalisti italiani.
Questa donna mi piace, eccome! Ma c’è una cosa che non farei mai: lasciarmi seppellire dalla mia stessa penna: la scrittura non può uccidere lo scrittore.
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