Scovai nel cuore della mia memoria il momento esatto in cui scoprii per la prima volta la parola amore. Lo scovai per caso. Quando di ritorno da un lavoro che non mi apparteneva un’immagine s’impresse davanti alla mia retina. Insistente e ferma, voleva essere raccontata.
Da piccola ho sempre guardato gli adulti come un mondo a me estraneo. Nel quale non credevo ci sarei entrata. Piccola, bianca come la neve e con due treccine nerissime, girovagavo su e giu per quel piccolo cortile della mia vecchia casa. Abitavo in quelle case del centro storico dove scale e corridoi ti aprono porte sconosciute e tu entri in mondi abitati da fantasmi e fate. Porte che non pensavi nemmeno esistessero.
Per anni ad esempio ho creduto che Torino, chissà poi perché proprio Torino, si trovasse dietro una porta che dava su un giardino. Mi spinsi anche oltre con la mia teoria, arrivando ad affermare che il mondo finisse proprio lì. I miei fratelli mi prendevano in giro: E secondo te che c’è dopo Torino? La mia fantasia però a quel punto non andava oltre. Dopo Torino c’è un burrone lungo lungo. Così descrivevo i confini della Terra. Né piatta né rotonda, semplicemente un lungo giardino che univa la mia vita alla città di Torino, e poi il burrone. Davvero credevo che il mondo finisse in una città che in vita mia non avevo mai visto. Davvero credevo che Torino si trovasse dietro quella porta. E che più in là ci fosse il nulla.
La porta era sempre stata chiusa e quando venne aperta per la prima volta ci entrai con timore. Mio padre mi accompagnava nel tragitto, come un’amorevole guida, inconsapevole però della grande guerra innescata dentro le mie viscere. Dietro quella porta mi aspettavo di tutto. Torino! Perché no. La natura selvaggia! Certo. La mia fantasia galoppava alla velocità della luce. E non ci volle molto a costruire trame e guerre dove alla fine i buoni vincono e i cattivi perdono. Immaginavo quel burrone pieno di liane e rovi. Una città in balia della natura. Con grandi alberi e foreste piene di querce. Del mondo m’incuriosiva tutto. La luna, che si divertiva ad inseguirmi dapertutto. La pioggia, che credevo fosse una serie di secchiate d’acqua buttate da dio sulla terra non so bene in base a quale criterio. E ovviamente la porta sul giardino.
Mentre camminavo con le mie piccole scarpine nere lucide, cercando di non sporcarle e di non cadere in qualche trappola malefica, i miei occhi si fermarono su una grata. Imprigionava un vaso con una delicata rosa rossa. Dietro il buio di qualche oscurità. La scena mi sembrò crudele. Avrei voluto salir fin lassù e liberare quel fiore. Affidarlo alle caldi braccia del sole e ridargli nuovo vigore. Ma ero piccola, piccola come un canarino, e la mia forza non volava a quelle altezze. Coi piedi ben saldi sulla terra e la fantasia giunta fino in cielo, avevo già dimenticato Torino e i suoi confini. E se non fosse stato per mio padre quella rosa sarebbe sempre stata per me un’innocente in prigione. Invece non era così. Dietro quella grata si nascondeva un appartamentino piccolo e umido, dove una giovane coppia di innamorati era venuta ad abitarci. Lei felice di questo amore e incurante dello squallore che la circondava lo aveva adornato con una splendida rosa rossa. Un fiore di una tale bellezza da oscurare tutto: Torino, la porta sul giardino, il burrone e chi più ne ha più ne metta. Fu allora che scoprii per la prima volta la parola Amore. La lessi tra le grate di una finestra. Adagiata tra i petali di un fiore.
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